Rapporto di lavoro tra conviventi: prestazioni lavorative gratuitamente rese

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250xNell’ultimo ventennio i comportamenti familiari degli italiani si sono completamente trasformati. Sebbene il nostro paese mantenga tendenze conservatrici ed una radicata tradizione cattolica, si stima che le unioni libere siano ben 500.000.
La giurisprudenza riconosce le unioni more uxorio in tutte quelle stabili convivenze strutturate sulla falsa riga delle famiglie legittime. Allo stato attuale la famiglia di fatto non è ancora oggetto d’una compiuta disciplina normativa. Tuttavia i numeri non mento, la convivenza more uxorio è sempre meno un “fenomeno di nicchia”. E, proprio a causa della sua diffusione, spesso la giurisprudenza è chiamata a disciplinarne le conseguenze e gli effetti.

In questa sede ci interessiamo alle: prestazioni lavorative gratuitamente rese in favore del convivente more uxorio.

Partiamo da un necessario presupposto: la famiglia di fatto è tale quando l’articolazione dei rapporti interni è speculare a quella della famiglia legittima. Detto questo, è chiaro che i conviventi more uxorio siano tra loro legati da un così detto affectio coniugalis, ovvero da un intimo rapporto d’amore che può ben portare alla condivisione d’ogni cosa, anche delle attività economiche. In questo senso, nella pratica dei fatti è legittimo che un convivente si presti a lavorare per e con il suo partner senza trovarsi alle sue dipendenze.

Prima della riforma del diritto di famiglia (1975) la giurisprudenza , in linea di principio generale, presumeva la gratuità delle prestazioni lavorative rese dal convivente\lavoratore in favore del partner, purché non riconducibili a prestazioni di lavoro subordinato.
È appena il caso di precisare che restavano imprescindibili presupposti della gratuità la stabile convivenza, l’affectio coniugalis ed una reale partecipazione del convivente lavoratore a tutte le risorse della famiglia di fatto.

Con la riforma del diritto di famiglia e l’introduzione dell’istituto dell’impresa familiare, ex art.230bis c.c., qualche cosa cambia.
Essenzialmente muta l’orientamento giurisprudenziale della presunta gratuità della prestazione.

A norma dell’art.230bis c.c., “salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività lavorativa nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquisiti con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato“.
Introdotta questa norma, il primo problema che si è posto è stato il seguente: la disciplina dell’impresa familiare può estendersi in via analogica alla famiglia di fatto?
Sicuramente no. La Cassazione ha chiarito che l’art.230bis c.c., detta una norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica. L’impresa familiare rappresenta di fatto una eccezione rispetto alla ordinaria disciplina delle prestazioni lavorative.
L’esclusione della convivenza more uxorio dall’ambito applicativo dell’articolo sembra suggerire l’incostituzionalità della norma. Ma la stessa Cassazione ha ritenuto infondata la questione di incostituzionalità: ha precisato che l’impresa familiare è stata pensata solo per la famiglia legittima perché solo il matrimonio, in quanto atto giuridico, può giustificare l’imposizione di doveri e l’acquisizione di diritti in capo ai soggetti. Diversamente, la convivenza more uxorio è una libera unione che non si presta ad imposizione alcuna, ed è, altresì, revocabile unilateralmente ad nutum, senza conseguenze – quanto meno per le parti adulte che liberamente la hanno vissuta.

Sta di fatto che l’art.230bis c.c. ha compromesso il principio di gratuità delle prestazioni lavorative prestate a favore del partner convivente, nel modo in cui era stato pensato prima della riforma del diritto di famiglia.
Di fatto lo ha compromesso perché pretende una assoluta cointeressenza patrimoniale del prestatore di lavoro nell’impresa familiare. Questa condivisione assoluta del lavoro, della sua gestione e dei suoi frutti è chiaro che non possa essere presupposta in linea dio principio. Essa pretende, per sua stessa natura, dei puntuali accertamenti.
È dunque chiaro che la situazione risulta, in ultima analisi, completamente ribaltata.
Siccome la disciplina dell’impresa familiare, ex 230bis c.c., statuisce che il rapporto di lavoro, all’interno della impresa stessa, ottenga il crisma della gratuità a condizione che sussista una cointeressenza patrimoniale. Rispetto alle unioni di fatto, la prestazione del convivente lavoratore nella impresa familiare potrà qualificarsi come gratuita solo ove sia certa quella assoluta condivisione del lavoro e dei suoi frutti che impone oggi il 230c.c. e questa certezza non può presumersi.
Sulla scorta di tutto ciò la più recente giurisprudenza è arrivata ad affermare che: in via di principio, ogni attività configurabile come prestazione di lavoro si presume effettuata a titolo oneroso, ancorché prestata dal convivente more uxorio. Ciò non toglie che si possa ricondurre la prestazione ad un diverso rapporto istituito affectionis vel benevolentiae causa, quindi caratterizzato da gratuità.

C’è un problema pratico che va portato alla luce:
nel corso di un accertamento ispettivo gli organi di vigilanza non hanno mezzi idonei ad accertare la sussistenza di quei caratteri necessari a vincere la presunzione di onerosità.
Quindi gli organi ispettivi legittimamente qualificheranno il rapporto come di lavoro dipendente.
Dott.ssa Federica Federico

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